Psicologia del branco

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Il “branco” violento, quello che si manifesta a Torino o a Roma,  che abusa per mesi di una ragazzina 13enne o devasta una città, mostra il suo volto spaventoso e folle. Allora diciamo che il branco non pensa, non ragiona. Si muove sotto la spinta dell’emulazione: quello che fanno gli altri lo faccio io. Il suo agire è alimentato da  un “non pensiero”, incapace di prevedere le conseguenze o di avere una motivazione.

Tempo fa, un procuratore della Repubblica dopo aver interrogato un gruppetto di adolescenti che si devertivano a gettare i sassi dal cavalcavia, disse “Sono solo teste vuote. Non c’è dentro niente!” Intendeva dire, non c’è un perchè che spieghi il loro agire. Aggiungerei io: sono analfabeti di emozioni e incapaci di empatia.

Nel gruppo, infatti, l’azione e il pensiero individuale si organizza e si sviluppa attorno ad una apparente motivazione personale che però rimane primitiva o soffocata dalla potenza della suggestione collettiva e condizionata dal bisogno di far vedere agli altri  ed essere riconosciuti. In genere così nascono le azioni violente del branco o la furia dei bulli. A volte questa è l’unica ragione per cui da agnelli si diventa lupi.

Il branco

Il branco

Le bande giovanili di un tempo non erano diverse. La forza era data dall’unione.  Principalmente però, crescevano dentro le metropoli affogate nella povertà economica e all’interno di comunità emarginate. Ora  i vandali, i bulli,  i violenti crescono dappertutto. Nei piccoli centri, nei paesi, nei villaggi che una volta sembravano al riparo dalla criminalità e dove la qualità della vita si diceva fosse più a dimensione umana. Alle volte li incontriamo precocemente negli asili e nelle scuole elementari prima di raggiungere le medie e le superiori. Non li riconosciamo subito e sorridiamo alle loro imprese e a quelle spavalde provocazioni. 

Così facendo, però, è come se li autorizzassimo a continuare e ad alzare il tiro.

Il branco, che nasce e si forma dal gruppo quando questo acquisisce importanza e significato, diventa allora un’agglomerato di energia, una forza incotrollabile e potente, che devasta e ti sfida senza un minimo di paura. Può accadere in piena luce, nel cuore della città, su una panchina dei giardini o nel corridoio della scuola, di nascosto dallo sguardo degli adulti o davanti a tutti. Di sovente avviene se noi grandi siamo distratti e incapaci di controllo. Ma se nessuno vede è, quasi sempre, perchè non si vuole vedere. Allora il dato più avvilente è il silenzio e l’indifferenza.

Questo è accaduto alla tredicenne di Torino e a mille altre vittime di abusi.

Il branco che compie vandalismi non è una cosa nuova, c’è sempre stato. Solo che un tempo era mosso dal bisogno di sfidare le regole, di misurare la propria forza con quella dei grandi. Ora il bisogno primario è quello di essere visibili, di acquistare consistenza e popolarità. A differenza di ieri, il gesto vale se tutti lo vedono, se impone attenzione e richiama spettatori, se oltre alle telecamere delle emittenti televisive, ci sono dieci, cento, mille telefonini che ti riprendono e ti mandono immediatamente in “rete”.

La violenza è diventata una forma di spettacolo che fa “share” ed ha pieno titolo per la nostra cultura quotidiana dove i reality dilagano e il turpiloquio impera. Se sfuma il confine tra il “possibile” e il “non consentito”, allora ogni azione diviene realizzabile e il valore di quello fai si misura sulla visibiltà che acqusisci. L’aggressione o l’umiliazione di una prepotenza, il saccheggio di una città o le performace sessuali imposte davanti ad una cam, sono ora imprese  “eroiche” se le metti in rete subito dopo averele riprese con il cellulare. Diventi un mito se il tuo video gira,  se molti ti “seguono”, se ti cliccano.

Questo alimenta il potere del bulli. Così non si tratta di mostri, ma solo di esibizionisti in branco, che hanno bisogno di contare almeno un po’ per qualcuno. Non provengono più dalle aree degradate della società, ma crescono in ambienti dove povere sono  le relazioni, dove mancano i legami che sostengono e la condivisione dei sentimenti. Spesso è la solitudine la dimensione più frequente.

Alle prese con  la ricerca di un’identità anche solo virtuale, quegli adolescenti spavaldi e fragilissimi, organizzano i loro riti, anche i più macabri, per la necessità di lasciare un’orma, una traccia di sé o quanto meno un segno, anche provvisorio, di un’esistenza che non sanno ancora come vivere e riconoscere.

Non è una giustificazione ma un’amara considerazione: in questo spazio vuoto oggi si tenta di diventare grandi, senza riuscirvi.

 Giuseppe Maiolo

 

Psicologia del branco ultima modifica: 2015-02-21T14:21:50+00:00 da Giuseppe Maiolo

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