Vale, come la chiamano da sempre, non ha ricordi diversi di quei primi anni di scuola. Ha
le parole cattive degli insulti che le ruotano in testa e un corpo ferito dalle prepotenze quotidiane.
Ha cicatrici come testimoni degli incubi notturni e angosce fatte di parole odiose
scritte col fuoco sulla pelle, ma abilmente nascoste ai grandi. Ha la certezza di essere sbagliata
e inutile, colpevole e convinta che nessuno saprà mai aiutarla.
“Vale sei un maiale” e giù grugniti e ghiande. Come quel giorno al bagno, prigioniera dei
maschi, costretta a mangiare da un sacchetto di plastica puzzolente ghiande e sale in un misto
di giaculatorie spudorate e difficili da capire. Lei, accerchiata dal branco come un piccolo animale
in trappola, ricorda ancora lo sguardo spietato delle femmine, complici silenziose della sua
tortura, e conserva nelle orecchie i versi mostruosi di chi mimava quel suo corpo di bambina
obesa da deridere e colpire. Se ne andarono, le belve, sghignazzando, ma non prima di averla
coperta di rabbia e insulti che nessuna delle maestre riuscì mai a raccogliere.
Valentina ha imparato a tenere tutto per sé, da sempre. Trattiene il pianto e la disperazione,
ma soprattutto non dice. Ripete monotono un mantra: “Meglio le botte”. Meglio prenderle
e provare dolore sulla pelle che contare i tagli dentro. Così nel tempo l’hanno feritafuori, con precisa determinazione e violenza. O per divertimento. Accaniti come aguzzini
esperti che sanno infierire sulla preda, il branco l’ha rincorsa ovunque e catturata sempre,
mentre lei, con testardaggine, ha sperato fino all’ultimo giorno che con quella scuola primaria
potesse finire il suo inferno.
da ” Mio figlio tra bullismo e cyberbullismo” GiuntiEdu